“Ciò di cui l’Italia è oggi drammaticamente e specialmente priva è la politica”.
Ha fatto discutere e riflettere in questi giorni l’intervento di Ernesto Galli della Loggia che ha come improvvisamente registrato il vuoto di senso e di autorevolezza che offrono oggi i luoghi che dovrebbero costituire i riferimenti simbolici per “ordinare” le nostre vite: la politica appunto, ma anche la chiesa, la scuola, il sindacato, la famiglia stessa.
Espressione eclatante di questo vuoto proprio la persona che dovrebbe incarnare il massimo di potere, di potenza e di promessa della politica: Berlusconi. Il quale invece – dice l’editorialista del Corriere della sera – più che alfiere dell’”anti-politica”, si è “ridotto ad essere (o ad apparire, il che è lo stesso) null’altro che l’uomo della non-politica”.
Penso che il successo di Berlusconi in questi anni stia anche nel fatto che ha messo in scena una sua verità – la realtà è fatta da ricchi e poveri, poveri che ce la possono fare, ricchi che ce l’hanno fatta perché sono più bravi e più furbi, quindi da imitare e a cui affidarsi – inclusa, più recentemente, la verità del vuoto della politica e della crisi della sessualità e del potere maschile. E’ anche vero che questo “discorso” ha avuto successo mentre altri soggetti a sinistra – come ricorda Galli della Loggia – si sono ammutoliti.
Colpisce anche la povertà di senso venuta in questi giorni dal mondo dell’economia: il grande manager Fiat Marchionne sceglie di rivolgersi direttamente ai lavoratori di Pomigliano – un gesto paternalista assai poco “moderno” – e nel suo testo emerge il fatto che le logiche della globalizzazione siano accettate come un dato di fatto immodificabile, quasi non dipendessero da scelte umane, mentre il vero problema di Marchionne – gestire il conflitto che pure si è aperto con un 40 per cento dei “suoi” operai e una parte non trascurabile del sindacato rappresentata dalla Fiom – viene semplicemente rimosso, nella sua lunga lettera non se ne trova traccia esplicita.
Non è secondario, a mio avviso, che siamo di fronte a tutte forme di un potere maschile in crisi. La crisi si esprime nelle forme di una incapacità di produrre grandi – o anche piccole – narrazioni credibili sulla società e il suo destino, e ancor più in quelle di un distacco sempre più profondo dalla realtà della vita quotidiana delle persone, uomini e donne.
Nel tema rientra, credo, anche la questione del ruolo degli intellettuali rilanciata dal primo numero della nuova serie di “Alfabeta”, con gli articoli – tra gli altri – di Umberto Eco e Andrea Cortellessa – ma anche (cosa nei commenti apparsi finora significativamente rimossa) di Maria Teresa Carbone, Federica Giardini, Letizia Paolozzi sulla presenza di un “differente” ruolo intellettuale critico esercitato dal femminismo.
Si ruota soprattutto intorno alla questione della “critica” che gli intellettuali, più o meno “disorganici”, esercitano nei confronti del potere. Mi chiedo però che cosa succede quando le forme del potere rappresentano un così profondo vuoto di senso. Il ruolo della conoscenza dovrebbe essere criticamente rivolto a riempire questo vuoto, non solo a denunciarlo. Quindi a riconquistare la nozione delle vite reali, e delle forme mutanti di coscienza e autocoscienza, della dialettica delle relazioni personali e sociali.
Questo è molto difficile perché si è verificato un taglio nelle dimensioni temporali. Sempre su “Alfabeta” un saggio di Paul Virilio commenta con un certo sgomento l’appiattimento del tempo nella dimensione di un presente sempre più istantaneo prodotta dall’evoluzione tecnologica e capitalistica: “intemporaneità” , oltre la “contemporaneità”. Sotto varie spoglie riappare l’inquietudine covata dalla filosofia dopo Hegel di una “fine della storia”, di un cortocircuito tra passato, presente e futuro che azzera le capacità umane di dare un senso alla vita e di indicare mezzi e fini alla civiltà.
Sospetto che anche qui si annidi un problema maschile. Il fallimento, con esiti anche tragici, della grandi narrazioni ideologiche, lascia appunto un vuoto di senso. Nel frattempo è avvenuta una rivoluzione che ha superato la cesura tra il tempo della “civiltà” e della politica e quello della vita quotidiana e della sua riproduzione. Tra “polis” e “oikos”. Una nuova capacità di percepire il tempo e di dare senso “politico” alle nostre vite (il bene della “città” inteso non come un astratto e totalizzante “bene comune”, ma come il bene che si può produrre e ci si può scambiare nelle relazioni – comunque conflittuali – tra individui e individue) potrà nascere se intanto si prenderà coscienza del fatto che questo mutamento è avvenuto.