Franca Fossati si è chiesta se a Gaza non venga destituita di fondamento la famosa massima del generale Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Quale sarebbe infatti, al di là dell’orrore per la tante vittime innocenti di questa guerra (o ha ragione D’Alema a definirla una “spedizione punitiva”?), la razionalità politica dietro il fragore delle armi?
Per ora non si capisce. Almeno io non lo capisco.
Israele annuncia una tregua “unilaterale”, forte di un accordo con gli Usa (ma quali Usa, se Obama non ha ancora assunto in pieno le sue funzioni?) per il controllo dei traffici di armi verso Hamas. La decisione “unilaterale” ha poi il significato di ulteriore disconoscimento di Hamas come nemico con il quale sarebbe possibile una qualche forma di trattativa. Almeno ufficialmente. Tuttavia Hamas dice di volere la tregua, ma solo se l’esercito israeliano si ritirerà.
Si è svolto un vertice al Cairo con tutti i “moderati”, l’Onu e l’Europa, compresi i palestinesi di Abu Mazen. Sono in molti, evidentemente, a voler eliminare o almeno ridimensionare Hamas. Ma gli oltre milleduecento morti palestinesi di Gaza saranno “utili” per questo risultato? Molti osservatori ne dubitano. Tanta violenza di Israele a Gaza potrebbe avere anche l’effetto inverso, rafforzare ulteriormente Hamas e i tanti fondamentalismi radicati nel mondo arabo.
Forse è stata raggiunta quella soglia di nuove vittime palestinesi sufficiente – come si chiedeva nei primi giorni della guerra Adriano Sofri – a “riequilibrare” la minaccia dei razzi che piovono sugli israeliani. Forse è stata colmata la misura sopportabile dei “danni collaterali”. Forse davvero non esiste più una vera razionalità politica dietro la violenza che si scatena in quel disgraziato luogo del mondo.
Max Gallo ha parlato di un conflitto che nessuno può ormai vincere: “La superiorità militare consente a Israele vittorie parziali, ma le sconfitte palestinesi originano rabbie e attentati suicidi. Morire diventa una via d’uscita; uccidere una soluzione! Così finisce il tempo del “politico””.
Sto leggendo l’interpretazione di Clausewitz di René Girard, secondo il quale la vera intuizione del generale prussiano è che la logica mimetica del duello scatena nella guerra moderna una violenza che cresce verso l’estremo, di natura apocalittica. Concetto che contraddice il primato della politica poi affermato dallo stesso autore su un piano di volontarismo razionale. Un’altra tesi di Clausewitz è la maggiore potenza della difesa rispetto all’attacco. E la tragedia di israeliani e palestinesi è probabilmente che combattono entrambi “in difesa”. Così come tragico è l’altissimo valore simbolico contrapposto della violenza che si scatena tra loro. Gli ebrei che cercano sicurezza dopo essere sopravvissuti allo sterminio perpetrato dalla “civilissima” Europa. I palestinesi che pagano per una colpa che non gli appartiene.
Non si tratta dunque – come scrive Clelia Mori – di parteggiare per gli uni o gli altri, introiettando così e confermando in qualche modo la logica del conflitto. Per me è insopportabile l’azione israeliana a Gaza, ma non posso tollerare che alla stella di David sia sovrapposta la svastica di Hitler.
Girard descrive la guerra senza freni che esplode per logica mimetica tra “fratelli” ormai privi dei dispositivi sacri che deviavano sul “caprio espiatorio” la violenza collettiva. Dopo il cristianesimo e il sacrificio volontario del figlio di Dio questo dispositivo non c’è più. Il Vangelo predica la pace perché siamo tutti “uguali”. Ma gli uomini non rinnegano ancora la violenza che deriva dal credersi diversi, e che nell’era della tecnica può portare alla fine del mondo. Una dinamica che può essere rotta ora solo da uno “sguardo dal di fuori”, “a un tempo interno e esterno alla comunità”.
Un gesto religioso? E’ solo lo sguardo femminile – mi viene da dire – che può rispondere a queste caratteristiche e spezzare la dialettica fratricida della violenza. Ma Girard non sembra vedere questa differenza. E per ora stentiamo a vederla in quella tormentata Terra Santa.
Sul “manifesto” (di oggi, 18 gennaio 2009) uno scritto molto interessante firmato da “Sinistra cristiana”. E’ la ricerca delle verità diverse e molto difficili che compongono la “questione israeliana”, che è insieme una questione religiosa, politica, antropologica. Per chi vuole la pace non basta dunque manifestare “contro”, ma è necessario un pensiero e una presa di parola che non sottovaluti una complessità rimossa ogni giorno anche dalle semplificazioni dei media e dagli strumentalismi degli attori politici, oltre che dai fondamentalismi contrapposti.