La settimana scorsa Hillary Clinton è tornata accanto a Barack Obama e ha invitato i propri sostenitori e sostenitrici a non far mancare il voto al candidato democratico che a fine mese verrà incoronato a Denver per poi battersi con il repubblicano John McCain alle elezioni presidenziali di novembre. Barack ha aperto le braccia a Hillary (e anche il portafoglio per pagare almeno parte dei debiti elettorali da lei accumulati) e ha esclamato: “Insieme abbiamo fatto la storia”.
Ma di che tipo di storia si è trattato?
Non certo della storia a lieto fine augurata dalla signora direttore di questo giornale a Hillary, il giorno dopo il disastroso “supermartedì” che l’ha messa fuori gioco. Immaginava un finale, Flavia Perina, di libertà riconquistata da parte della ex first lady, la quale dopo aver stirato (metaforicamente) le camice al marito presidente si sarebbe rifiutata di continuare a stirarle all’ex rivale candidato, spiazzando tutti e spiazzando sé stessa dal ruolo secondo, giocato sempre con autonomia e grinta, ma pur sempre secondo.
“Con un addio alla scena da gran signora”, scriveva Perina in un intervento sul Foglio, “Hillary potrebbe trasformarsi in ciò che non ha voluto essere per il lunghissimo iter di queste primarie: un campione e un modello per le donne, icona della libera scelta e della superiorità ‘antropologica’ del genere femminile, che ha sempre un’uscita di sicurezza in più, rispetto agli uomini, dagli insuccessi della vita”.
Invece no: forse per via dei debiti, forse perché la superiorità “antropologica” femminile non funziona per tutte come antidoto alle sconfitte, Hillary è di nuovo sulla scena, per dovere se non per piacere: una democratica deve spendersi per far diventare presidente un democratico. Anche se in cuor suo forse spera che McCain faccia fuori Obama, consentendole così di riprovarci nel 2012. Del resto: perché non dovrebbe continuare a lottare se crede di avere ancora delle possibilità? Non sono per la demonizzazione-demoralizzazione degli sconfitti, figuriamoci se sono per quella delle sconfitte.
Come che vada a finire, la storia-che-ha-fatto-la-storia si presta a più di una riflessione. Prima di tutto fa pensare al fatto che il rapporto tra le donne aspiranti al potere politico e l’elettorato (costituito per un po’ più della metà da donne) sia diventato molto complicato, persino negli Usa, dove un sondaggio dell’emittente televisiva CBS ha appurato che il 95% di elettori e elettrici sono pronti per votare una donna per la presidenza del paese, basta che sia competente, mentre il 55% considera i tempi maturi per insediare una donna nella Casa Bianca.
Non era così ai tempi dei trionfi di Golda Mair e di Margaret Thatcher, grandiose leader politiche che non dovevano badare ai sondaggi sessuati per mirare diritte alla meta, né dovevano rispondere alle aspettative femminili (ma anche maschili) di essere diverse e migliori degli uomini nell’esercizio del loro mandato. Ma oggi siamo nel XXI secolo e cogliamo i frutti (talvolta avvelenati) del femminismo del XX e non possiamo più pensare agli esseri umani di sesso femminile senza mettere in campo la differenza, se non la superiorità “antropologica”, di sesso.
Secondo, in questo contesto culturale e indipendentemente dal valore della candidata, la sconfitta di Hillary ha segnato il capolinea di un certo femminismo americano molto attaccato a certe caratteristiche liberal che però non rappresentano più i pilastri dei liberal stessi: compattezza nell’atteggiamento pro choiche sull’aborto, nei comportamenti a-religiosi, nei sentimenti pacifisti, malgrado lei, la Clinton, ne sia stata la rappresentazione moderata, attenta agli equilibri da rispettare nei tempi che corrono.
Pur tuttavia è caduta nella trappola della rabbia verso il rivale impedendosi di accogliere subito e senza indugi con fair-play la sua vittoria. Mentre le sue agit-prop accreditate nei media come Gloria Steinem e Erica Jong hanno evocato lo spettro del sessismo allorquando gli elettori e le elettrici delle primarie hanno cominciato a preferirle Barack Obama. “Una donna come lei, di successo, conquistato in un’epoca in cui per ottenere riconoscimento occorreva affrontare molte battaglie e vincerle, è circondata da tali pregiudizi da non risultare simpatica”, ha dichiarato Steinem alla CNN; Erica Jong, intervistata da Alessandra Farkas sul Corriere della Sera, è andata oltre incolpando i media di aver gettato addosso alla prima concorrente donna del primo paese del mondo il brutale avvertimento: “Il tuo tempo è esaurito, spostati e fai largo al giovane”. Per questo è arrivata la disfatta: “La sconfitta di Hillary è una duplice sconfitta per le donne della mia generazione perché mostra l’agghiacciante doppio standard secondo cui solo per noi l’esperienza non conta nulla”, ha concluso senza appello.
Ho la stessa età delle signore citate e ho fatto anche le stesse esperienze. Capisco quindi quanto bruci il tempo che passa sulla pelle e sul cuore, quanta nostalgia distilli nell’anima il ricordo di battaglie affrontate e vinte, tra sé e sé, tra sé e il mondo. Penso però che, per lo meno ogni tanto, vada recitato un de profundis riguardo a ciò che è alle spalle per poterlo guardare con occhio benevolo ma selettivo, per dare spazio a nuove curiosità.
Per esempio: girare per i blog e i quotidiani on line di stampo repubblicano e scoprire che anche dall’altra parte, quella femminile repubblicana, si registrano obiezioni femminil-femministe a Hillary Clinton espresse da donne ugualmente convinte della superiorità “antropologica” di sesso, solo che se la giocano in un modo diverso, non competitivo nei confronti degli uomini.
Il catalogo (incompleto) è questo: Hillary è la candidata che ha chiesto di essere votata in rappresentanza di tutte, anche di quelle che non si riconoscono nella politica del suo partito; come tutti i democrats ha identificato il femminismo nella pletora di protezioni per le minoranze oppresse e nella rivendicazione di diritti paritari che snaturano la libera scelta individuale; è la paladina del piagnisteo femminile che considera qualsiasi approccio maschile uno stupro; con la scusa della lotta per la parità salariale attenta alla differenza sessuale che implica anche differenza di prestazioni e dunque di guadagni; vuole statalizzare la sanità, appiattire al credo laico l’istruzione pubblica e impedire lo sviluppo dell’home schooling (l’insegnamento basilare domestico) che rappresenta una risorsa per quei genitori che vogliono trasmettere ai figli i loro valori senza interferenze pubbliche o private.
Comunque la pensiamo sui singoli temi anti-Hillary delle republicans, c’è un’evidenza di cui bisogna tener conto: la politica-politica conta, e marca le differenze tra donne. E però facciamo fatica a prenderne atto prese come siamo dall’obbligo dell’autodifesa femminile contro lo strapotere degli uomini, cui tentiamo di contrapporre una “sorellanza di sesso” che nei fatti non esiste.
Per quanto mi riguarda, nutro una speranza per il 2012: uno scontro presidenziale tra Nancy Pelosi, democratica, Presidente della Camera dei Rappresentanti, e Condoleeza Rice, repubblicana, Segretaria di Stato. L’una celebrata come la prima italoamericana arrivata a coprire un’alta carica, l’altra come la prima afroamericana; l’una moglie e madre di cinque figli, l’altra singola; l’una convinta pacifista, l’altra convinta – se così si può dire – guerrafondaia. Finalmente assisteremmo a uno scontro libero da ipoteche nostalgiche e, femminilmente, ideologiche.