Nel “manifesto” che Rosetta Stella ha donato alla sinistra politica insieme alle “femministe del mercoledì”, che da qualche tempo si riuniscono a Roma, si legge tra l’altro “no alla malinconia” e “no alle cose fatte senza piacere”. Penso che la malinconia possa anche essere un sentimento, una condizione dello spirito, da coltivare e elaborare più che rifiutare, ma sono completamente d’accordo con il fatto che non si conclude nulla se non si è spinti dal “piacere”, dal desiderio. Specialmente nelle relazioni tra le persone, che sono la base anche della politica.
La sinistra, le sinistre – in cui io includo, anche per via di alcune relazioni personali significative, il Pd, o almeno alcune sue parti – devono prima di tutto superare una grave crisi depressiva, una mortificante assenza di desiderio, di cui l’origine più vicina è la sconfitta alle ultime elezioni politiche, ma quella più profonda risale all’89, al crollo dei socialismi e dei comunismi realizzati, con tutto il contesto di idee sulla società, sulla proprietà e lo stato, sul pubblico e sul privato che quelle tradizioni e pratiche politiche e statali diversamente inglobavano. Una cesura storica ancora non completamente metabolizzata.
L’esigenza di un ripartire “dai fondamenti” – come direbbe Aldo Tortorella – è ritornata recentemente in un articolo di Rossana Rossanda (“Sassolini nelle scarpe”) e nelle “11 tesi dopo lo tsunami” elaborate dal Crs di Mario Tronti, discusse poi pubblicamente.
Rossanda è rimasta affezionata – sintetizzando e banalizzando un po’ – alla “contraddizione principale” tra capitale e lavoro, e preferisce non istituire gerarchie con altre grandi “contraddizioni” della nostra epoca, quella tra i sessi e quella tra sviluppo e ambiente. La società umana – dice – “non è una piramide, è un frattale”. Anch’io sono sospettoso rispetto alle gerarchie concettuali che facilmente degenerano in dogmatismi, e credo che il termine “contraddizione” sia ormai troppo appesantito da questi rischi logico-linguistici.
Perché non parliamo di “rivoluzioni” (beninteso di rivoluzioni che avvengano soprattutto nei nostri cervelli)?
A proposito del superamento di atteggiamenti malinconici e/o nostalgici, penso che abbiamo la fortuna – sì la fortuna – di vivere in un’epoca storica di grandi nuove rivoluzioni. Quella che mi ha toccato più da vicino – esperienza credo comune a tanti altri uomini – è stata e resta la rivoluzione delle donne. Sono convinto che si tratti di una rivoluzione antropologica che attraversa ormai tutto il mondo, intrecciata e sostenuta da una rivoluzione tecnico scientifica che assume il volto della globalizzazione capitalistica e della interconnessione mediatica.
Questi rivolgimenti determinano grandi ingiustizie, minacce enormi per l’equilibrio ecologico del pianeta, sollevano domande inquietanti sull’uso della scienza, che arriva alla radice della vita e della materia, ma aprono inedite prospettive di liberazione su scala personale e globale. Pensiamo alle trasformazioni della Cina e dell’India, alla rottura delle vecchie tradizioni in tante parti del mondo, alle grandi migrazioni.
Il tema all’ordine del giorno – come si sarebbe detto una volta – è quello della libertà. Dei singoli, delle singole, e di tutti gli uomini e le donne che sono oppressi nel mondo da negative condizioni materiali e politiche.
Mario Tronti ha ragione – come ho letto su Liberazione – a sottolinearlo. Mi convince meno la sua proposta di recuperare il tema della libertà principalmente dalle tradizioni comunista, socialista e cristiana, in quanto “non borghesi”, e non dal bagaglio liberale e democratico.
Nessuna declinazione della libertà va dimenticata, ma è la libertà femminile la cosa nuova del nostro tempo, e da lì – credo – la politica, e la sinistra, devono ripartire se vogliono riconquistare un rapporto con la realtà. Non credo che sarà possibile se prima non si innescherà una seria “autocoscienza” anche da parte degli uomini, a cominciare del ceto politico maschile.
Inoltre – ecco un’altra provocazione – ho trovato molto più stimolante e ricco il liberismo illuminato di Alan Greenspan (“L’era della turbolenza”) che il conservatorismo oscurantista di Giulio Tremonti (“La paura e la speranza”) che tanta fascinazione ha esercitato invece a sinistra.
Al seminario annuale di Asolo – organizzato dall’associazione “Identità e differenza” – ho discusso ancora una volta con le amiche della Libreria delle donne di Milano sull’esigenza di non disinteressarsi della crisi della politica istituzionale, del declino della democrazia.
Lia Cigarini ha proposto un terreno comune di iniziativa sul lavoro. Ma un lavoro in cui – anche qui – la novità principale è costituita dal massiccio ingresso delle donne nel mercato, e dalla rottura che questo produce nella tradizionale divisione tra produzione e riproduzione.
Non dunque “lavoro e sapere” – come recita la tesi n. 9 del Crs – “più la differenza del lavoro femminile”. Non si tratta di una condizione aggiuntiva, ma di un dato costitutivo per la costruzione di una nuova idea di cittadinanza e di politica. La sinistra, anche quella più intelligente, continua a non vederlo credo per una ragione profonda. Perché è simbolicamente costruita, nel suo intimo, ancora su quell’idea di classe che era definita dalla famosa “contraddizione principale”, anche se lo nega o lo rimuove.
Vogliamo discuterne?