“No alla famiglia, no al pacchetto sicurezza”. Questi, secondo Lea Melandri e Angela Azzaro, gli slogan che hanno dato significato alla manifestazione delle donne contro la violenza (Liberazione, 25 novembre). Se hanno ragione loro, come dar torto a quelle manifestanti che hanno cacciato dal corteo Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna e che, successivamente, hanno sgombrato il gazebo della “7” dove si intervistavano le ministre?
Infatti Eugenia Roccella, che fu portavoce del family day, scrive su Il Giornale (26 novembre) uno dei commenti più benevoli. Perché stupirsi di quello che è successo? Erano già scritte nel documento delle promotrici della manifestazione le premesse delle contestazioni. E cioè, secondo l’editorialista de Il Giornale, “un’analisi datata e semplicistica che fa della famiglia il luogo di ogni nequizia” e che non tiene in alcun conto “il problema della sicurezza urbana”.
Tutte le altre allora, quelle che non si sono riconosciute nelle contestazioni, hanno sbagliato corteo? Pensano che la famiglia sia sempre e solo un tripudio amoroso e il pacchetto sicurezza la panacea di tutti mali? Sono delle ingenue che si aspettavano “un giulivo raduno impolitico, tenuto insieme dal minimo comun denominatore del no alle botte e agli stupri” (Ida Dominijanni, Il Manifesto, 25 novembre)? Non hanno letto e chiosato “il documento” dei collettivi promotori?
Io credo che, molto più semplicemente, pensassero di sentirsi a casa propria in una manifestazione di donne (anche le ministre che, infatti, non riuscivano a capacitarsi di essere oggetto di tanto rancore). Si illudevano che le modalità della protesta tenessero conto di una storia. Quella del movimento delle donne. E delle sue differenze.
Così scrive, ad esempio, Monica Lanfranco sul Paese delle donne on line. Che critica anche l’“involutivo e regressivo” divieto alla presenza maschile. C’è di che discutere. E infatti, sui siti delle donne, sono in tante a replicare.
Ma la povertà delle parole colpisce. Ritrovi, declinati al femminile, tutti gli schemi interpretativi della cosidetta sinistra radicale. Il contributo delle donne sembra consistere solo nel vittimismo. I numeri delle stuprate, uccise, picchiate. Quasi tutte, sappiamo, per mano di mariti, amanti, fidanzati, conoscenti. Da qui il salto: no alla famiglia. Ma che cosa significa? Quale famiglia?
Le donne al corteo, le giovani e le vecchie, parlavano tra loro di figli, mariti e fidanzati. Le lesbiche rinfacciavano alle politiche di non aver fatto la legge sui pacs o di non aver legittimato il matrimonio omosessuale. E’ la parola “patriarcato”, indistinta, che sembra riassumere tutto. Senza lettura dei cambiamenti. Senza distinzioni tra le contraddizioni che vivono le studentesse danzanti, le ragazze rom, le mussulmane con il velo (per altro tutte insieme in piazza).
L’altra parola forte è “razzismo”. E’ vero che “fino a qualche anno fa davanti a una donna violentata si diceva che se l’era cercata. Oggi si dice: è stato un rumeno” (Piera Degli Esposti, L’Unità, 24 novembre). E’ vero che è stato a dir poco discutibile approvare il “pacchetto sicurezza” del governo cavalcando l’emozione per l’omicidio di Giovanna Reggiani. Ma si può negare che esista un problema di sicurezza nelle strade? Basta chiederlo a Paola Tavella e Alessandra Di Pietro che ne hanno scritto, senza partito preso, su Il Foglio (23 novembre). Ed è vero anche che “sui diritti delle donne immigrate molte femministe sono arrivate in ritardo” (Maria Laura Rodotà, Corriere della sera, 25 novembre). Perché non ammetterlo allora e riconoscere che alcune donne di destra sono state più vigili e pronte?
Il fatto è che un corteo è solo un corteo. Vive di semplificazioni. Ma non c’è niente di semplice in questa questione della violenza sulle donne.
L’articolo è uscito su “Europa” del 27novembre