Non è mai semplice sollevare delle obiezioni quando, in una gara-competizione-primarie, c’è un vincitore sostenuto da un successo così ampio come quello ottenuto, per la guida del Pd, da Walter Veltroni il 14 ottobre scorso.
Un successo personale (dal momento che il Pd ancora non c’è e non si sa come sarà e in che modo procederanno insieme gli uomini e le donne e con quali regole, poiché in tanti, a partire da Veltroni, promettono di cancellare le odiose gerarchie, gli aborriti apparati, le esecrabili correnti) fondato sul rapporto diretto tra leader e popolo.
Ci sarebbe da temere un’operazione plebiscitaria e peronista, ma le file dei votanti di domenica scorsa non avevano nulla dei descamisados e l’equilibrio del sindaco di Roma, benché gli capiti di scivolare nella retorica nell’ I have a dream, è a prova di bomba.
D’altronde, era logico supporre che la forza che esiste (o meglio, che resta) dei Diesse, si riversasse su Veltroni. Adesso, la Margherita si preoccupa dello sbilanciamento a favore dell’ex partito della Quercia nell’assemblea costituente. Temono di diventare una sorta di Cosa 3. Anche questo timore ha una sua logica dal momento che la mescolanza tra due partiti è impresa difficile, scommessa azzardata. Non può avvenire senza effetti collaterali indesiderati.
Aggiungo che rispetto alla volontà di costruire il Partito democratico si trattava di muovere i primi passi sul terreno inesplorato della competizione politica; competizione che in Italia viene generalmente affrontata coltello tra i denti. La sinistra (ma anche la destra) si trova meglio a scannarsi che a competere civilmente. Il tempo delle “convergenze parallele“ di Aldo Moro è finito. Mi sa che non si riaffaccerà facilmente all’orizzonte.
Sarebbe questo dello scannarsi un buon argomento di discussione. Proprio nel momento in cui si annuncia una manifestazione come quella del 20 ottobre, convocata dai direttori di Liberazione e del Manifesto; proprio nel momento in cui, come scrivono alcune donne vicine al Prc “la piazza come luogo di azione politica condivisa e responsabile sta perdendo in questi ultimi tempi questa sua connotazione e sembra destinata ad essere sempre più rappresentazione del malcontento indifferenziato e palcoscenico del protagonismo maschile“.
E’ evidente che tassisti arrabbiati, riformisti delusi, avvocati battaglieri aspirano tutti a manifestare. Contro Veltroni, Prodi, Bersani, Mastella e via discorrendo. Che le donne si riprendano la piazza troppo segnata dalla presenza maschile, e che ci portino dentro “la soggettività femminile” mi pare francamente complicato.
Detto questo, è interessante che rispetto alla politica le donne si interroghino. Anche se non è convincente ripetere l’equivoco (vecchio di decenni) di rappresentare il femminismo (o, peggio, di autorizzare qualche partito a farlo…) mentre, più semplicemente, aderiscono con maggiore o minore passione a un qualche contesto politico. Altre (nel Pd e non solo) sembrano contentarsi dell’applicazione del 50 e 50. Fa eccezione Claudia Mancina che sulla rivista del Partito democratico (numero zero) guarda, invece, con maggiore attenzione, alla dialettica tra uguaglianza e differenza sessuale.
Comunque, il femminismo non si colloca necessariamente a sinistra o a destra. Non è laico o cattolico. Non si è femministe in quanto ci si ritrova tra sole donne o si pratica la relazione tra donne o ci si sente depositarie dell’eredità del movimento delle donne.
Più grande è però il fastidio provato quando, nelle “Invasioni barbariche“, Daria Bignardi , intervistando Rosy Bindi, le ha agitato davanti agli occhi lo spettro del lesbismo, rimproverandola perché, nel 2007, se ne va “ancora“ a discutere in un luogo di femministe milanesi.
In realtà, il femminismo consiste nel dare un senso al proprio essere donna (magari anche in diversi luoghi della politica, ma certo non solo qui). Forse Bignardi quel senso lo sta ancora cercando. Le auguriamo di trovarlo al più presto.