Alla fine le ho viste, tutte insieme. Parlo delle donne, qui nello stato di J., Nigeria del nord. Un nutrito gruppo che vive nelle aree rurali (case di fango, muri di cinta fatti di stuoie, capre, per le più fortunate un asino), è venuto a supportare la loro candidata, per la prima volta in corsa
per la locale assemblea.
La candidata viene da una famiglia di politici: suo padre, emiro del luogo, era un uomo illuminato: nel 1969 aveva varato una legge statale che obbligava le famiglie a mandare le bambine a scuola, legge tuttora vigente ma ampiamente non osservata. Durante le campagne elettorali, la candidata allora bambina batteva palmo a palmo le porte del deserto – dove passano le carovane di cammelli che portano potassio, vengono dal Niger e vanno nella grande città vicina – dormendo nell’auto dei genitori. Così quando ha deciso di candidarsi nessuno della famiglia si è opposto, anzi il marito fa da portavoce e bada ai nove figli (diciamo anche che lei non va in nessun luogo pubblico senza di lui…).
Questa volta però, trattandosi di donne, eravamo da sole. Una piccola stanza – 60-70 più bambini, al collo e nelle pance -. Una stuoia per noi ospiti illustri, io credo l’unica donna bianca in tutto lo stato, ho visto come i corpi rapidamente si materializzassero: le donne, invisibili durante il giorno, oggetti da toccare solo in privato, nell’intimità che l’appartenenza allo stesso sesso concede loro, mettono a disposizione il loro corpo: si toccano, si abbracciano, cantano, si passano i bambini. Per ognuna di loro sono “my sister”, felici di avere una nuova amica.
Confesso una discreta emozione di fronte a tanto entusiasmo, ma anche l’amarezza di sapere che ognuna di loro pone nel futuro e nelle persone più aspettative di quanto esse possano realmente promettere e dare.
Le donne che si sono candidate hanno perso la prima tornata elettorale nigeriana, ma non per diretta responsabilità. Il partito che le ha candidate, praticamente l’unico, è quello dell’ex vicepremier Atiku Abubakar, fatto fuori dalla campagna dallo stesso capo di stato e premier Obasanjo.
Solo ieri la corte suprema ha deciso la sua riammissione alle elezioni, e sabato 21 si vota per le presidenziali e per le due camere. Vedo in tv gli speciali della BBC sulle elezioni francesi, mentre qui ho visto voti comprati, interi contenitori con i voti già dati portati via dalla polizia, bambini e bambine ammessi a votare e pagati con pochi centesimi di dollaro.
La Nigeria sta contando il tributo di morti pagati al voto del 14 aprile, più di cento, tra cui un imam folgorato da un colpo di arma da fuoco mentre si preparava alla preghiera dell’alba in moschea. I responsabili si fanno chiamare Al Qaeda, e sono pronti anche a uccidere gli altri musulmani, colpevoli
di non fare abbastanza per la causa.
In molte città le elezioni sono state annullate e alle otto di sera bisogna rientrare a casa perché scatta il coprifuoco. Le donne candidate, mi spiega una attivista del sindacato lavoratori, non sanno ancora fare rete, non hanno molti soldi a disposizione per la propaganda, non sanno come usare al meglio radio e televisione. Potrebbero magari venire in Italia a imparare? Resto in silenzio, mi vergogno a sufficienza.
Qui nella città in cui mi trovo, tutto tace. Ai check point (niente a che vedere con quelli che ho visto un anno fa a Gerusalemme e Ramallah) i soldati parlano con le ragazze che aspettano l’autobus: lo stato concede alle donne di viaggiare gratis.
Domani andrò a farmi dipingere i piedi con l’henné.